Parlando di botti di legno, nell’ultimo trentennio si è visto di tutto: prima lo smantellamento delle vecchie botti a favore dell’acciaio, poi il ritorno in grande stile del legno di rovere, principalmente nella sua versione “francese”, espressione a volte impropria, e dei piccoli contenitori, le barriques. In seguito abbiamo assistito al ritorno dei tini tronco-conici per la vinificazione; da ultimo, almeno per alcuni vini tradizionali, il ritorno della botte grande o meglio di medie dimensioni. La fase attuale vede, soprattutto in Francia, l’acquisizione di nuove conoscenze attraverso la ricerca, e, in tutto il mondo, la pressione da parte dei produttori di vino verso i bottai per assicurare standard qualitativi elevati, assenza di rischi, rispondenza ai parametri richiesti dalle aziende e dichiarati dai bottai.
La “tracciabilità” del legname è diventata, ad esempio, un punto critico al quale si dà oggi molta importanza, anche perché è nota l’influenza dei territori di origine sulle caratteristiche del legno, nonché sulla specie prevalente tra le due più usate dai bottai europei (cioè la rovere e la farnia, i cui legni hanno caratteristiche diverse, come descritto su Vignaioli Piemontesi di giugno 2004). Il “mantenimento della traccia” può essere complicato perché la filiera del legno da botti è piuttosto complessa. In Francia la maggioranza delle foreste sono demaniali, e la gestione della prima fase produttiva è, in questo caso, di competenza di un’azienda pubblica. L’Office National des Foréts gestisce le foreste demaniali e quindi, in prima battuta, anche il legno abbattuto che ne deriva. E’ pertanto il maggior produttore di legno di rovere da barriques, anche se non l’unico. Esistono infatti foreste comunali e private.
Lo schema della filiera del legname.
Abbiamo approfondito alcuni aspetti relativi alla tracciabilità del legno e all’assicurazione qualità in compagnia di Beppe Contratto e di Marc Saury, rispettivamente agente per l’Italia e titolare della Tonnellerie Saury, una ditta specializzata nella fabbricazione di barriques di rovere a grana fine che fornisce diversi clienti di prestigio in tutto il mondo, Piemonte compreso. Per ottenere il rovere a grana fine (grain fin) di pregio servono piante che hanno da 100 a 200 anni di età, in quanto la finezza della grana è inversamente legata alla lentezza di accrescimento dei fusti. Le piante migliori vengono da suoli molto drenati, che d’estate inducono un moderato stress idrico e quindi rallentano l’attività vegetativa delle querce. Secondo il nostro protocollo si intende per rovere a grana fine quello che proviene da un tronco con 1,5 mm di massimo accrescimento annuale radiale (misurato attraverso la distanza tra gli anelli del legno).
Accrescimento radiale annuo mm
La scelta del tipo di legno e di lavorazione dipende del produttore, dalle caratteristiche del vino di base e da quello che si vuole ottenere. Comunque per la nostra esperienza il rovere “grain fin” delle foreste del centro della Francia è il legno più indicato per la maggior parte dei vini di pregio, sia bianchi che rossi, perché apporta dolcezza e facilita la maturazione dei tannini senza cedere note “legnose” sgradevoli e amare: in ogni caso la finezza della grana del legno è solo uno dei tanti elementi che fanno la qualità di una barrique.
Ogni pianta abbattuta è contrassegnata con una targhetta. Il lotto di taglio è identificato con anno, codice dipartimento, foresta, parcella, numero progressivo. Questi dati costituiscono la traccia di partenza di ogni lotto di “merrain” (legname), che deve essere riportata su tutti i contratti di vendita. Il merraindier trascrive questi dati su un registro di acquisto del legno. I lotti devono rimanere separati e identificati fino alla lavorazione del legname in doghe. Dopo la spaccatura del legno il contrassegno con la traccia di origine passa sui bancali delle doghe e, successivamente, accompagna i documenti di acquisto del legname da parte del bottaio. Normalmente il legname viaggia sui bancali stessi preparati e contrassegnati dal merraindier, quindi non è difficile mantenere la rintracciabilità durante questo passaggio.
All’acquisto alcuni bottai, tra cui Saury, prelevano anche, a campione, schegge di doghe per analisi, onde appurare l’assenza di contaminanti come TCA e TBA (i cosiddetti gusti di tappo possono, come noto, derivare anche da fonti diverse dal sughero e in particolare da contaminazioni su legno). Il bottaio sistema poi le doghe per la fase di stagionatura e a questo punto il mantenimento della traccia passa sotto la sua responsabilità. Noi assegniamo ad ogni catasta un codice a barre. Non è detto che all’atto della costruzione delle barriques il bottaio utilizzi un solo tipo di legno e un solo lotto, questo dipende dalle richieste dei clienti e dalla scelta e sensibilità del bottaio, ma in ogni caso è in grado di conoscere esattamente le varie provenienze.
Da Saury ogni singola botte è poi identificata a sua volta con un codice per consentire la rintracciabilità completa, che consente di correlare le prestazioni di ogni singola botte sia al legname di provenienza che alla tecnica di lavorazione della botte. In particolare esiste attualmente un sistema di monitoraggio delle temperature del legno durante la fase di tostatura, che utilizza sensori esterni, ed è applicato su tutta la produzione. I dati sono archiviati su supporto elettronico. Il codice individuale di ogni singola barrique riporta data, ora e posizione di tostatura quindi è possibile risalire anche alla sua specifica “curva di tostatura” e confrontarla con i dati analitici e sensoriali dei vini.
Tornando al sistema di tracciabilità del legname, questo è garantito non solo attraverso un protocollo sottoscritto dagli operatori, ma anche attraverso l’attività di controllo di ispettori, che dipendono dal sindacato dei bottai (CTB) e operano dietro richiesta delle singole aziende con visite non preannunciate ai merraindiers, i quali devono essere in grado di indicare la provenienza del legname in lavorazione e il rispetto del protocollo di tracciabilità. In caso contrario il legname viene rifiutato”.
E’ piuttosto singolare e affascinante questa integrazione tra un’arte antica, sostanzialmente poco mutata nei secoli, e l’utilizzo dei più moderni sistemi informatici ed elettronici di gestione dei dati. Questa è, d’altra parte, la vera sfida dell’Europa del vino, e non solo dei bottai: riuscire a valorizzare la tradizione utilizzando gli strumenti che la tecnologia mette a disposizione.
Ho conosciuto al Vinitech di Bordeaux, nello scorso dicembre, la Tonnellerie de l’Adour, e in particolare Joseph Nicastro, responsabile vendite per l’Italia. Questa vivace fabbrica artigiana produce nel Sud Ovest della Francia barriques tradizionali, con doghe di spacco a lunga stagionatura, e barriques e tonneaux con una particolarità costruttiva che le differenzia: la faccia interna della doga non è piana ma appunto “ondulata”. In questo modo si aumenta la superficie di scambio vino-legno. Ci sono vari tipi di “ondulazione”, in grado di aumentare questa superficie di scambio dal 30% al 120 % rispetto alla barrique classica. La ditta vanta ottime referenze e clienti di prestigio anche in Italia, tra cui una ventina di cantine delle Langhe. Queste botti mi incuriosirono molto e quindi ne approfittai per chiedere a Joseph alcuni informazioni. Riporto una sintesi di quel dialogo, che si concluse con un paio di degustazioni di cui, devo ammettere, conservo un ottimo ricordo.
Qual è lo scopo dell’ondulazione?
L’ondulazione permette di aumentare del 30%, 75% o del 120% la superficie di contatto fra legno e vino. Questo favorisce una concentrazione più forte di polisaccaridi e di polifenoli nel vino. Con l’ondulazione c’è una superficie interna di scambio aumentata, che permette una micro-ossigenazione più intensa. Quindi, rispetto a una barrique classica, nello stesso periodo di affinamento si ottiene un vino più aperto, con maggiore morbidezza e consistenza.
Da quanto tempo esiste questa tecnologia?
La scanalatura delle doghe è stata ideata di Alain Fouquet della Séguin Moreau per la barrique in rovere americano a Napa in California, ed è stata proposta per l’Europa dalla Tonnellerie de l’Adour a partire dal 2000, nelle forme a “superficie ondulata” con 30% e 75% di superficie aggiuntiva, in rovere francese o americano. In Italia è proposta dal 2001.
L’aumento della superficie di scambio non rischia di provocare un effetto “eccesso di legno” negli aromi e nel gusto del vino?
È comprensibile che ci sia questo timore, l’avevamo anche noi, ma si è dimostrato infondato. C’è una prova ufficiale dell’INRA che comprova i risultati positivi di questa tecnica (di questa prova ci è stata poi fornita la documentazione relativa, Ndr). Sul piano analitico si osserva un aumento della velocità con cui si combinano la SO2 e gli antociani liberi, in sostanza c’è una accelerazione delle reazioni fisico chimiche. Sul piano sensoriale si osserva una più rapida acquisizione del carattere boisée, seguita però da una non meno rapida integrazione dello stesso carattere nella complessità del vino, e da un sensibile “arrotondamento” dei tannini.
In complesso il vino guadagna in volume e grassezza, ma non sotto l’aspetto dell’ “odore e sapore di legno” che dopo alcuni mesi risulta spesso maggiore, al contrario, nell’affinamento tradizionale.
È da considerare che il costo delle barriques a doghe ondulate in sostanza non si discosta da quello dei tipi tradizionali.
Non ci sono problemi di pulizia?
I nostri clienti possono confermare che l’ondulazione evita la formazione di croste compatte di tartrati, quindi i depositi si staccano più facilmente con il lavaggio. Comunque è possibile, specie per le barriques da destinare alla vinificazione in bianco con batonnage, utilizzare doghe a superficie lisce per la zona inferiore della botte, dove si raccoglie il deposito di fecce fini.
Per alcuni vini, e in particolare i classici vini a DOCG da vitigni italiani, cioè i grandi vini da Nebbiolo e Sangiovese (ma anche Aglianico, Montepulciano e altri) si assiste ad un parziale ritorno a tecniche tradizionali, in particolare alla botte grande e al legno di rovere cosiddetto “di Slavonia” e non tostato. Ritorno parziale, dicevo, per vari motivi: le botti sono in genere di dimensioni medie, dai venti ai cinquanta quintali, e non più le enormi botti del passato; la durata di utilizzo non si misura più in numero di decenni ma, più o meno, in un ventennio, con un paio di piallature interne tra il primo e l’ultimo riempimento. I produttori e gli enologi più tradizionalisti (come il nostro Tablino …) sono sempre stati convinti, almeno per i vini rossi, della superiorità del rovere dei Balcani o di Slavonia rispetto al rovere francese.
Si tratta di uno di quei classici tormentoni di cui non esiste la soluzione, perché tecniche diverse danno prodotti diversi, e preferire l’uno o l’altro è, evidentemente, questione di gusti. Il rovere dei Balcani (ma anche quello francese del Limousin) proviene essenzialmente da legno di farnia, che ha una tessitura meno compatta, conferisce più tannini ed è poco dotato di gamma-lattoni, cioè sostanze che danno gusto dolce e aromi di vaniglia. È possibile che lo scambio di ossigeno sia più intenso, a parità di spessore delle doghe, e che le qualità apportato al vino da questi legni emergano soprattutto sulla lunga distanza e durante l’affinamento in bottiglia, mentre nell’immediato sembrano lasciare il vino più magro e amaro.
Recentemente ho trovato piuttosto curioso sentire lodare il rovere di Slavonia addirittura in California. Il produttore sosteneva che il suo Nebbiolo nei tonneaux da 5 ettolitri guadagna un colore più intenso e stabile nel rovere di Slavonia che nel rovere francese a grana fine. Un produttore delle Langhe mi ha confidato invece che secondo la sua esperienza il rovere di Slavonia oggi sul mercato è di qualità piuttosto variabile, ce ne è di ottimo ma anche di mediocre, mentre il rovere francese, almeno quello dei fornitori più selezionati, è più costante. Comunque una cosa è certa, qualcuno che voleva bruciare le vecchie botti ultimamente ci ha ripensato. Dell’argomento si è occupata di recente la prestigiosa rivista britannica Decanter:
“Gli ordini per le botti tradizionali sono in crescita in Italia e all’estero, mentre le importazioni di barriques sono in forte calo, secondo il bottaio Garbellotto. In accordo con il mutamento della domanda che chiede meno “legno” nel vino i produttori hanno cominciato a usare le barriques due o tre volte (sai che novità …), mentre alcuni le abbandonano per tornare e alle botti tradizionali, grandi e di rovere di Slavonia”.
A Vinitaly abbiamo sentito direttamente l’opinione di Piero Garbellotto jr., ultima generazione di una delle più antiche aziende familiari italiane (non solo di botti, ma in assoluto, visto che opera dal 1795), che ci ha spiegato: “la distinzione tra rovere di Slavonia e francese è fuorviante, la vera distinzione è tra le due specie botaniche, la Quercus sessilis (o petrea) e Quercus pedunculata (o robur), che sono le sole due querce normalmente usate per le doghe. Entrambe le specie si trovano in Francia, nei Balcani e in giro per l’Europa. Ed anche la foresta è poco indicativa, perché ci può essere una variabilità elevatissima nelle caratteristiche di piante della stessa foresta. Comunemente per rovere di Slavonia si intende il legno di farnia (Quercus pedunculata). È la quercia di pianura, cresce a bassa quota e in zone umide.
La “grana” del legno è legata soprattutto alla densità del bosco, che deve essere tendenzialmente alta: la competizione tra piante vicine riduce il vigore ed anche la formazione di nodi. La qualità di una partita di legname è legata a molti fattori, ci può essere legno buono o cattivo per le due specie e in tutte le foreste. In generale il legno di farnia ha cessioni meno intense e più prolungate nel tempo. Per questo è un legno molto indicato per le botti, mentre per barriques e tonneaux questo dipende dalle esigenze del produttore e dal tipo di vino che vuole ottenere. Spesso la miscela di legni diversi è la soluzione migliore. Tra l’altro la nostra ditta è l’unica che utilizza la piegatura a fuoco diretto non solo per le barriques ma anche per le botti grandi, una tecnica che preserva al massimo le caratteristiche del legname e gli conferisce un certo grado di tostatura, che può essere modulato”.
Come si sa, sono cose che si usano nel Nuovo Mondo, dove sono consentite, per dare le note del legno con poca spesa, e in Europa, dove sono vietate. Esiste peraltro una ricca documentazione e un discreto patrimonio di ricerca anche da noi, perché la nostra ricerca enologica è finanziata dai fornitori di prodotti e tecnologie assai più che non dai produttori di vino, e, conseguentemente, risponde assai più ai bisogni dei primi che a quelli dei secondi. Diverse riviste hanno pubblicato prove e commenti su chips e altri cascami di quercia, con risultati generalmente conformi alle aspettative dei finanziatori … Ad esse rimandiamo chi volesse approfondire l’argomento.
Maurizio Gily