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I Brettanomyces: buongustai pericolosi

Anche nell’ambito dei lieviti ci sono i buoni ed i cattivi. Fra questi ultimi, in base alle segnalazioni che provengono, con frequenza crescente, ormai da tutto il mondo (dalla Francia all’Australia, dagli Stati Uniti all’Italia, dalla Germania al Sud-Africa), vanno annoverati, e sempre con riferimento a vini di alto pregio, generalmente rossi, ma senza disdegnare bianchi e spumanti, gli appartenenti al genere Brettanomyces.

BrettanomycesSi tratta di lieviti molto particolari, dalla caratteristica forma ogivale, appuntita, più piccoli dei comuni Saccharomyces, di sviluppo lento, ma molto resistenti a parecchi fattori avversi, primo fra tutti l’alcol. Detti lieviti assai raramente producono spore e in questo caso vengono attribuiti al genere Dekkera. La specie riscontrata con maggior frequenza nell’ambiente enologico è Brettanomyces bruxellensis nel quale sono confluiti B. intermedius e B. lambicus.
Da epoche remote conosciuti e utilizzati nell’industria birraria, i Brettanomyces sono assai rari in vigneto e sulle uve mentre trovano il loro habitat di elezione nell’ambiente di cantina, soprattutto quando l’igiene di locali, vasi vinari, tubazioni ed attrezzature in genere lascia a desiderare. Manifestano una predilezione per i vini rossi da invecchiamento, preferibilmente in barrique o comunque in legno, ma pure in vasca ed in bottiglia, in cui provocano sgraditi intorbidamenti e depositi.
Il meno giovane degli autori riscontrò detti lieviti, in numero non preoccupante, in ottimi Nebbioli conservati in botte ben quarant’anni fa e successivamente in vini rossi, pugliesi, abruzzesi e greci, sempre in fase di affinamento.
Le preferenze “ecologiche” dei Brettanomyces sono legate alla peculiare ricchezza compositiva dei vini in invecchiamento ed alla loro generalmente moderata acidità. Gioca inoltre a favore dei lieviti ogivali, non particolarmente competitivi, il fatto che, completate la fermentazione alcolica e quella malolattica, viene meno l’attività di gruppi microbici antagonisti. D’altra parte, qualora i succitati processi non si fossero conclusi, i vini, lasciati per periodi anche prolungati a temperature propizie agli sviluppi microbici, con presenza di tenori zuccherini più o meno rilevanti e senza adeguata protezione da parte dell’anidride solforosa, possono parimenti offrire un substrato propizio ai Brettanomyces come ad altri microrganismi contaminanti.
I prodotti del complesso metabolismo dei Brettanomyces (“Brett-flavour” per usare un termine ormai diffuso internazionalmente) sono assai sgradevoli per il consumatore. Si tratta di sostanze volatili che vanno dal banale acido acetico all’acido isovalerianico, dalle acetil-tetra-idro-piridine agli etilfenoli, le quali sono alla base di sensazioni definite come rancido, orina di topo, farmaceutico, cavallo sudato, per limitarsi ai descrittori più ricorrenti. In questa sede ci limiteremo ad affrontare il tema che riteniamo possa interessare maggiormente i vignaioli piemontesi: la produzione di 4-etilfenolo.

Origine degli etilfenoli, tenori nei vini e fattori che li condizionano

Gli unici lieviti in grado di produrre etilfenoli nei vini rossi sono i Brettanomyces (o Dekkera) in quanto capaci, in sequenza, di decarbossilare gli acidi idrossicinnamici, già presenti nelle uve o liberati dai loro esteri da preparazioni enzimatiche pectolitiche non purificate, a vinilfenoli e successivamente ridurre questi ultimi ad etilfenoli. Per la produzione di detti composti in quantità percettibili ai lieviti in parola bastano poche centinaia di mg/L di zuccheri fermentiscibili.
Il 4-etilfenolo in particolare, se presente in tenori superiori alla sua soglia di percezione olfattiva (dell’ordine dei 600 μg/L nei vini rossi), conferisce al vino sensazioni “animali” (stalla, sudore di cavallo, cuoio bagnato) o di plastica bruciata. In quantità minori tali sostanze attenuano fortemente le note fruttate, impoverendo di conseguenza il vino, a causa del loro effetto soppressore.
Sono stati recentemente analizzati, per via gas-cromatografica, 120 campioni di vini Barbera piemontesi, delle annate 2001 e 2002, in diverse fasi del loro processo di affinamento, prevalentemente in contenitori di legno. Il tenore medio di 4-etilfenolo è risultato di 900 μg/L e metà dei campioni presentava una concentrazione superiore alla soglia di percezione del composto.
Nell’occasione è stato accertato che la fermentazione malolattica non influenza il contenuto del vino in fenoli volatili mentre la presenza di ossigeno, in caso di contaminazione da Brettanomyces, può fare aumentare in maniera preoccupante il tenore dei composti in parola.
Ne consegue l’importanza dell’accurata e tempestiva esecuzione delle colmature, nonché del ricorso alla microossigenazione solo dopo valutazione attenta delle condizioni del vino.
Sicuramente l’affinamento in barrique o in botte, considerate le difficoltà di sanitizzazione di un materiale poroso come il legno, l’apporto di ossigeno e la disponibilità di sostanze nutritive, propizia la proliferazione da parte dei Brettanomyces, recentemente documentata mediante microscopia elettronica a scansione.
Nei casi da noi esaminati non è però risultata rilevante la differenza fra il contenuto di 4-etilfenolo di vini contenuti in barriques nuove e quelli affinati in barriques usate.
Certamente l’impiego di barriques usate, non scrupolosamente gestite, oltre a facilitare l’inquinamento microbico del vino, comporta la cessione di etilfenoli dei quali il legno risulta impregnato.
D’altro canto, secondo Chatonnet, le barriques nuove, grazie al loro potere ossidante più elevato, legato al maggior tenore di tannini ellagici, specialmente nei periodi più caldi, provocano una più rilevante diminuzione del tenore in solforosa libera.
Non è certo il caso di ribadire l’efficacia antisettica dell’anidride solforosa: nei vini esaminati l’attività dei Brettanomyces è stata inibita – come già riportato in letteratura – da tenori di SO2 libera dell’ordine di almeno 20-25 mg/L (corrispondenti, ad un pH di 3,6, a 0,4-0,6 mg/L di S02 attiva).
Per un’efficace igienizzazione della barrique prima del riempimento si raccomanda la combustione dei tradizionali dischetti di zolfo.
Dopo un’accurata pulizia, l’uso di acqua ad almeno 80°C, se possibile in pressione, per tempi sufficientemente prolungati (10-15 minuti) o meglio di vapore, può decimare la microflora contaminante (a patto di raggiungere nella profondità del legno almeno i 65°C) ma riduce i tempi di utilizzo delle barriques in quanto provoca un contemporaneo impoverimento del legno di sostanze pregevoli.
Da parte nostra sono state seguite prove di sanitizzazione dei vasi vinari con un prodotto a base di perossido di idrogeno ad elevate concentrazioni. In base ai controlli microbiologici effettuati il trattamento è risultato efficace, ma sono necessari volumi assai elevati di acqua di risciacquo per evitare la permanenza di residui pericolosi per le caratteristiche del vino.
In conclusione non possiamo che riaffermare, soprattutto quando si sottopongono i vini ad affinamenti prolungati, l’importanza di una scrupolosa igiene di cantina accompagnata da una frequente attività di monitoraggio.
Sicuramente il ricorso all’analisi sensoriale è particolarmente prezioso, tuttavia non dovrebbe essere disgiunta dalla ricerca di metaboliti specifici (come appunto il 4-etilfenolo) e dai controlli microbiologici, da effettuare, in particolare durante il periodo estivo, ogni uno-due mesi.
Qualora non basti il semplice esame microscopico, oggi sono disponibili terreni colturali per il conteggio selettivo dei Brettanomyces.
I metodi di analisi molecolare, alcuni molto rapidi, altri di elevata sensibilità, o quelli elettronici sono per ora riservati ai laboratori di ricerca.
La soglia di pericolo non è ancora definita con sicurezza, ma dovrebbe essere superiore alle mille cellule di Brettanomyces vive per ml di vino: sono però determinanti le condizioni che possono influenzare lo sviluppo del microrganismo inquinante: temperatura, grado alcolico, tenore in sostanze nutritive, pH, concentrazione di anidride solforosa.
Grazie ai regolari controlli di cui sopra sarà possibile evitare che travasi, tagli o assemblaggi diventino l’occasione per la diffusione dell’inquinamento e delle sue pericolose conseguenze per la tipicità aromatica e la qualità dei nostri vini.
Naturalmente, infine, la miglior tutela dei vini all’atto dell’imbottigliamento è rappresentata dalla pastorizzazione, per i vini ove è prassi, o da un’accurata microfiltrazione attraverso membrane di porosità 0,45 mm. Date le loro minute dimensioni, infatti, i Brettanomyces hanno più facilità degli altri lieviti di attraversare i normali filtri non sterilizzanti.
Annibale Gandini, Vincenzo Gerbi, Daniela Serra

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