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La vinificazione a cappello sommerso

La vinificazione in rosso con il cosiddetto “cappello”, cioè l’insieme delle parti solide portate al sommo della vasca dallo svolgersi dell’anidride carbonica, mantenuto immerso nel liquido fermentante con qualche apposito dispositivo, risale a molto tempo addietro. Rammentiamo appena, per curiosità, che negli anni ’70 dell’Ottocento il noto enologo francese Maumené aveva addirittura proposto un suo sistema in cui le vinacce venivano mantenute su vari piani a mezzo di appositi reticoli di corde agganciate alle pareti del recipiente, reticoli da predisporsi a mano a mano che la vasca veniva riempita.

Metodo ovviamente possibile forse allora, quando il costo della manodopera era assai basso e i vinificatori avevano dalla loro, come si suol dire, calendario ed orologio. Ma senza giungere a questi eccessi, il sistema di mantenere il cappello immerso nel liquido, affondando per una modesta profondità, prima dell’inizio della fermentazione, una griglia di legno tenuta in posizione da appositi fermi solidali con le pareti, era pratica diffusa in alcune zone, anche se giudicata inopportuna da alcuni tecnici.
Ma quali erano le motivazioni principali di questo procedimento? Come ben si sa, la superficie delle vinacce, con la sua grande area, moltiplicata dall’irregolarità delle parti solide, offre un contatto molto notevole con la fase gassosa sovrastante. Se questo ha scarsa importanza nell’immediato e se la fermentazione si dichiara con rapidità, dal momento che il gas carbonico che si svolge rappresenta una copertura efficace nei confronti dell’ossigeno dell’aria, le cose cambiano e peggiorano in circostanze diverse. Per prima cosa, se la temperatura del pigiato è bassa può intercorrere diverso tempo fra il riempimento del recipiente e l’inizio deciso della fermentazione; in secondo luogo coll’esaurirsi degli zuccheri ed il rallentamento del processo fermentativo, lo svolgimento dell’anidride carbonica si va facendo sempre minore e l’efficacia della separazione dall’aria sovrastante diviene dubbia. A questo si aggiunga che le follature, eseguite più o meno frequentemente per rompere il cappello e favorire la dissoluzione dei coloranti e dei tannini presenti nelle bucce, tendono a rimescolare gli strati gassosi sovrastanti la vasca ed a favorire il contatto dell’ossigeno col cappello.
Le conseguenze sono ben note: i batteri dell’acescenza, favoriti eventualmente dall’elevata temperatura della massa, tendono ad entrare in azione, con inevitabile aumento dell’acidità volatile e deprezzamento del prodotto. Spesso questa conseguenza negativa è mascherata dal fatto, che in seguito alle follature od ai rimontaggi, l’acido acetico e l’acetato di etile (a cui è dovuto l’odore di “spunto”), vengono distribuiti nella massa e non sono più nettamente percepibili; ma il danno è fatto e la qualità complessiva del prodotto compromessa. Queste conseguenze sono tanto minori od anche del tutto evitate se le follature e la svinatura vengono eseguite a dovere e nei tempi opportuni.
Ma come qualsiasi tecnico sa, una cosa è ciò che la teoria prevede ed altro ciò che talvolta è possibile eseguire in cantina con l’assillante sovrapporsi di compiti, scarsità e stanchezza del personale. Non tutte le vasche sono curate a dovere ed al tempo opportuno e in qualche caso le vinacce del cappello inacetiscono più o meno; in tali casi il vino che le imbeve anche se non gravemente compromesso, è una sorgente di batteri acetici, pericolosi anche in futuro, con conseguenze tecnologiche sgradite e possibile evidente danno economico. E’ ben vero che nelle grandi imprese con attrezzature moderne e molto automatizzate, questo problema non è più così evidente, ma nel caso dei piccoli o medi produttori che adottano ancora procedimenti più o meno tradizionali la difficoltà non è da sottovalutare.
In qual modo la vinificazione a cappello sommerso può essere d’aiuto in tali circostanze? E’ evidente che una volta riempito il recipiente e posizionato la griglia che impedisce l’emergere del cappello, i compiti del cantiniere vengono drasticamente ridotti: coperta la vasca, lasciando ovviamente uno sfogo per far sfuggire l’anidride carbonica, non ha che da attendere che la fermentazione faccia il suo corso: non solo la superficie del liquido a contatto con la fase gassosa è molto ridotta al confronto con quella delle parti solide a cappello emerso, ma non dovendo procedere ai rimontaggi, la copertura del gas carbonico, non disturbata da tali interventi meccanici, risulta molto più efficace e prolungata. Il che significa, in soldoni, che se anche la svinatura non avviene, per motivi contingenti, proprio al tempo stabilito, il vinificatore può anche non preoccuparsi troppo. Inoltre sarà certo che il vino di pressione ottenuto dalle vinacce avrà la medesima acidità volatile della massa e non sarà una sorgente di alterazione futura per il suo prodotto. Possiamo dire che la vinificazione a cappello sommerso è una sorta di primitiva ma efficace “automatizzazione”, che lascia maggior respiro in un periodo caotico e difficile per la gestione della cantina.

Punti deboli e controindicazioni

cappello sommersoGià abbiamo accennato alle critiche portate al metodo. Al di là della complicazione meccanica di disporre di tini di fermentazione opportunamente attrezzati, le riserve si appuntano soprattutto sull’insoddisfacente estrazione dei composti coloranti e tannici dalle bucce. Dal momento infatti che il cappello non viene mai “rotto” e ben rimescolato con la massa in fermentazione, il ricambio del liquido a contatto con le parti solide, è lento ed incompleto; macerazioni più lunghe possono in parte rimediare a questo inconveniente, ma non sempre. Infatti, come ben si sa, nel cappello emerso, anche a causa dell’ossigeno che inevitabilmente si mescola alle vinacce quando si procede alle follature, la fermentazione è assai più vigorosa che non nella fase liquida e quindi la temperatura più elevata. L’estrazione dei polifenoli è quindi fortemente facilitata. Col cappello sommerso la fermentazione risulta più lenta, la temperatura talvolta troppo bassa ed il patrimonio polifenolico (colore e tannicità) insufficiente. Inoltre fermentazioni prolungate impegnano per troppo tempo i recipienti e ciò può riuscire assai controproducente per il funzionamento della cantina, se la capacità dei volumi è ridotta ed ogni tino deve servire almeno due volte nel corso della campagna vendemmiale. Da quanto brevemente illustrato emerge che, come spesso accade in enologia, non vi sono soluzioni che si adattino a tutte le situazioni ed i pareri discordanti sovente si basano sulla differenza di presupposti e su necessità diverse.

Qualche osservazione più attuale e approfondita

Come si è visto le perplessità degli enologici contrari alla vinificazione a cappello sommerso sono correlate in parte a problemi di gestione della cantina (e su questi non ci soffermeremo) ed inoltre alle difficoltà di estrazione del complesso antocianico e tannico dalle bucce, a causa della mancata azione di rimescolamento delle parti solide ed al limitato conseguente ricambio della fase liquida a contatto con le bucce. Per valutare al giusto valore queste critiche tenteremo di applicare alla questione due tipi di considerazioni che hanno assunto notevole importanza in questi ultimi tempi: il concetto di “maturità fenolica” e i fenomeni di “copigmentazione”.
Iniziamo dalla maturità fenolica: è ormai ben noto che un certo tipo di uva, in funzione delle condizioni di allevamento della vite e dell’andamento della maturazione, passa attraverso varie fasi, in cui l’estraibilità degli antociani e dei tannini dalle bucce, come pure di questi ultimi dai vinaccioli, può essere molto differente. Sono stati escogitati molti procedimenti, più o meno complessi per valutare se la materia prima, al di là del semplice grado zuccherino e di acidità, si presti a cedere più o meno facilmente, nel corso della macerazione, il suo complesso colorante e polifenolico e, cosa non meno importante, nelle proporzioni più favorevoli per l’ulteriore evoluzione del futuro vino. Sembra evidente che con uve o nelle annate che consentono di conseguire una buona o ottima maturità fenolica, non sarà per nulla necessario intervenire con frequenti e pesanti follature per conseguire una composizione adatta in coloranti e tannini. Al contrario, con uve dalle caratteristiche “difficili” da questo punto di vista, sia per motivi congeniti alla cultivar, per così dire, o per avverso andamento meteorico, un rimescolamento più accentuato del cappello ed una temperatura più elevata potrà dare risultati più confacenti alle aspettative del tecnico ed alla tipologia di prodotto desiderata.
Qualche parola sul fenomeno della copigmentazione e della sua importanza nella questione qui trattata. Gli antociani presenti nelle uve rosse sono in grado di dare, nelle condizioni fisico chimiche dei vini, in presenza anche di modesta quantità di polifenoli particolari ed incolori (catechina, quercetina, ecc.) dei complessi più, e talvolta assai più colorati dell’antociano solo. Questo fenomeno ben conosciuto da molto tempo nel caso dei fiori, è stato fino a poco tempo addietro non considerato in enologia. Più recentemente si è accertato che per alcuni vini la copigmentazione può incidere in modo assai rilevante sull’intensità colorante dei rossi. La presenza o meno di queste sostanze che agiscono come “copigmenti” è risultata molto più importante per il colore finale che non insistiti e prolungati interventi meccanici, i quali, mentre non migliorano le caratteristiche cromatiche, aumentano spesso in modo marcato il contenuto in tannini aggressivi ed astringenti. Naturalmente non in tutte le uve la situazione compositiva è la medesima, ma è facilmente ipotizzabile che con cultivar in cui questo fenomeno risulta più marcato, l’impiego della vinificazione a vinaccia sommersa darà comunque buoni risultati, dal momento che le follature non conseguono di per sé risultati notevoli. E’ ancora da aggiungere che comunque, come ben si sa, solo il 30-40% degli antociani presenti nelle bucce passa nel vino, perché ad un certo punto la fase liquida ne risulta come satura e non ne estrae più. Ma se parte degli antociani vengono sottratti all’equilibrio per partecipare ai fenomeni di copigmentazione, altri antociani possono venir solubilizzati e l’intensità colorante finale risulta più elevata.
Merita ancora qualche considerazione la questione dell’arieggiamento della massa in fermentazione. Sempre più numerosi enologi hanno osservato che una moderata immissione di ossigeno è di grande utilità per ottenere una buona moltiplicazione dei lieviti ed una fermentazione completa degli zuccheri. A questo proposito le follature, se ripetute ad intervalli ottimali, possono contribuire in modo efficace, ma questa azione manca nel caso del cappello mantenuto in immersione. Per contro il rimedio è semplice: prelevando il mosto vino dal basso ed arieggiandolo opportunamente prima di rimandarlo sulla parte superiore del tino sarà possibile modulare l’ossigenazione nel modo desiderato, pur senza operare la rottura del cappello tipica di altri tipi di rimontaggio.

Mario Castino

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