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Nel futuro c’è un tappo a vite ?

Sempre più diffusi nel mondo gli “screwcap” di ultima generazione.

tappo a viteFebbraio 2004, Cantina Plumpjack, Calistoga, Napa Valley, California. E’ una “boutique winery”, cioè una piccola azienda che produce vini di lusso. Proprietario è il sindaco di San Francisco, ma qui dicono che ci sia anche lo zampino del miliardario Paul Getty. Tra le varie cose che caratterizzano questa cantina, tra cui alcune soluzioni tecniche sorprendenti, quella che colpisce di più riguarda un particolare aspetto della politica dei prezzi: Cabernet Sauvignon Riserva, versione tappo in sughero, 125 dollari, versione tappo a vite, 135 dollari. A bottiglia, si intende, prezzo al pubblico in cantina.
Bisogna spiegarsi. In Europa (con la parziale eccezione di Svizzera e Austria) il tappo a vite è ancora considerato per lo più una chiusura economica, da mettere ai “pintoni”. Ma nel Nuovo Mondo c’è un movimento sempre più vasto, partito dalla Nuova Zelanda (si veda a questo proposito il sito internet www.screwcap.co.nz), poi alimentato da un ponderoso studio sui tappi dell’Australian Wine Research Institute (su vino bianco da vitigno Sémillon: su altri vini i lavori sono ancora in corso), e ormai avanzante a grandi passi nelle Americhe, che lancia ai consumatori un messaggio molto semplice e chiaro: i vini con il tappo a vite sono più facili da aprire e da richiudere, sono esenti da rischi di gusto di tappo, ma, soprattutto, sono più buoni!
Non si parla di tappi qualsiasi, ma di prodotti di ultima generazione, abbastanza costosi e con un alto contenuto di tecnologia, il cui capostipite, e tuttora leader di mercato, è lo Stelvin, tanto che spesso si sente parlare di Stelvin come sinonimo di questo tipo di prodotto. E’ prodotto in Francia dalla ditta Pechiney ma, come da proverbio, non è profeta in patria. La capsula è in alluminio, e la guarnizione di tenuta, almeno nella versione “Stelvin”, è costituita da un materiale “poliaccoppiato”, che prevede uno strato esterno di polietilene espanso, uno intermedio in lamina di stagno, e uno interno (a contatto con il vino) di una speciale resina sintetica (PVDC, policloruro di vinilidene), il quale fa battuta sul margine liscio del collo di una bottiglia appositamente costruita con la filettatura per il passo a vite. La capsula è integrata con il tappo, quindi in un pezzo solo, e viene filettata in sede sulla linea di imbottigliamento, con una apposita testata a pressione: si presenta simile a quelle utilizzate per il tappo in sughero, anche se la parte alta del collo si distingue perché si vede la filettatura. La confezione può risultare, nel complesso, abbastanza elegante, anche se per noi un po’ scioccante. Le caratteristiche di questa resina che va a contatto con il vino, o per lo meno con lo spazio di testa, sono dichiarate di neutralità rispetto a cessioni di odori anomali e di assenza di assorbimento di aromi del vino (aspetto particolarmente importante per bianchi caratterizzati da componenti “minerali” quali il Riesling): il meccanismo di chiusura garantisce, a detta dei costruttori, ma anche di molti produttori e di non pochi laboratori e istituti di ricerca, una bassissimo scambio gassoso, quindi minime perdite di SO2 e minime acquisizioni di ossigeno. Non è ancora così chiaro se questo scambio molto ridotto sia effettivamente un bene per tutti i tipi di vino. Il suddetto studio dell’AWRI, che pure ha dato un forte impulso alla diffusione dello “screwcap”, fornisce in realtà dati controversi: anche se i vantaggi (assenza di ossidazioni e di TCA, elevata conservazione del fruttato, assenza di assorbimento di aromi particolari come il TDN[1]) superano gli svantaggi, tuttavia in alcuni vini con tappo a vite sembra di poter riscontrare in misura maggiore odori di “gomma” e di ridotto.
Al momento sono soprattutto i vini bianchi ad essere tappati con questo sistema, e in particolare quelli derivanti dai vitigni Sauvignon e Riesling.
Ovviamente, come in tutti i processi produttivi, anche nella tappatura con “screwcap” si segnalano punti critici, difficoltà operative e rischi, che non ho la competenza per affrontare nel dettaglio. Osservo però alcuni dati di fatto: in un recente articolo sull’autorevole rivista australiana “Wine Industry” si presentava il resoconto di una degustazione di 30 Riesling considerati ai massimi livelli per l’Australia: di questi, ben 26 erano tappati con Stelvin! In un recente seminario presso Enocontrol ad Alba il tecnico australiano Richard Gibson ha sostenuto che il tappo a vite sia praticamente l’unica chiusura consigliata per conservare la freschezza dei vini bianchi vinificati “in riduzione”, quindi minimizzando gli apporti di ossigeno: una tecnica che si va sempre più diffondendo anche in Italia, soprattutto per il Sauvignon.
Un amico che opera nel commercio internazionale mi ha riferito che un importatore inglese ha recentemente posto ad un suo fornitore italiano (per un vino abbastanza prestigioso) la condizione tassativa di tappare con screwcap e non con sughero, né tanto meno con il cosiddetto “sintetico” cilindrico. E non è certo un episodio isolato, tanto che, per questo prodotto, si parla ormai di un vero “boom” mondiale, tale da mettere in difficoltà le case produttrici. In Italia alcune aziende hanno già adottato questa innovazione, per prodotti destinati ad alcuni mercati esteri, tra cui, in particolare, la Gran Bretagna. In generale non sembra che, per ora, questo fermento mondiale coinvolga più di tanto il nostro paese, ma forse è solo questione di tempo.
Sempre in Australia c’è ormai un decennio di sperimentazione di screwcap sul Grange Penfolds, il vino-mito per eccellenza dell’enologia australiana, e i risultati sono, pare, molto buoni.
Sui vini rossi importanti, comunque, per ora, le valutazioni rimangono prudenti, malgrado alcuni colpi d’ala come quello di Plumpjack e di altre aziende del Nuovo Mondo. La stessa casa produttrice dello Stelvin dichiara, dal suo sito internet, che si tratta della chiusura ottimale per i vini giovani e fruttati, aggiungendo, ma solo in seconda battuta, che dà buoni risultati anche su lunghe conservazioni. In verità sui tempi lunghi non c’è ancora sufficiente esperienza per trarre conclusioni: sembra però ragionevole pensare che, almeno in questo segmento, il sughero abbia ancora un futuro importante da giocare, mentre su vini giovani e meno impegnativi questo prodotto naturale, almeno nella sua forma classica di turacciolo monopezzo, tende ad essere progressivamente superato da altre soluzioni tecniche, tra cui questa sembra una delle più promettenti anche se non l’unica. Da non sottovalutare un importante aspetto di marketing legato soprattutto ai nuovi mercati e ai nuovi consumatori: per un Cinese o un Indiano, ma anche per uno dei molti Americani che abitualmente non bevono vino, estrarre un tappo di sughero è più difficile e macchinoso di quanto sembri a noi, mentre una chiusura più “amichevole” facilita il compito. Rimane, invece, nella vecchia Europa, il timore di un blocco psicologico dei consumatori verso questo “arnese”, proprio perché associato ad altre, e più “basse”, esperienze di consumo.
Sul piano tecnico invece immagino che anche in Italia si stiano facendo esperienze su questo prodotto, ma non ne sono a conoscenza, e temo di non essere il solo.

Non ci sono quindi conclusioni a questa riflessione, ma alcune domande:
1) qualcuno ha provato, o sta provando (presumo di sì) questo tipo di tappatura per i nostri vini, e in particolare per quelli più soggetti a ossidazione e perdita di aromi?
2) E’ possibile conoscere i risultati?
4) Quali sono gli investimenti in comunicazione necessari per far digerire questo concetto (o un altro, comunque un’innovazione di questa portata) ai consumatori europei, e chi li sosterrà?
Su molti mercati del mondo c’è già chi, questi investimenti, li sta facendo: forse stavolta saranno gli Australiani a preparare il terreno per chi verrà dopo, al contrario di quanto è avvenuto finora!

[1] TDN: Tetradeidronaftalene, contribuisce alla nota olfattiva “minerale” di alcuni vini bianchi affinati in bottiglia, conferendo un caratteristico sentore di kerosene. Contrariamente a quanto si può pensare è un carattere positivo.

Maurizio Gily

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