Quando si parla di spumanti il pensiero corre spontaneamente alla caratteristica più evidente che li contraddistingue: la pressione interna alla bottiglia che provoca la fuoriuscita più o meno violenta del tappo e la spuma provocata dallo sviluppo del gas carbonico dal vino. Spuma abbondante e quasi irresistibile nell’immediato, prolungato perlage nel tempo, tanto più fine e persistente quanto più la qualità dello spumante è elevata. Queste circostanze inducono facilmente nella convinzione che le modalità del processo di rifermentazione, indispensabile per garantire tali aspetti, siano fondamentali e quasi le uniche nel forgiare le qualità del prodotto. Queste convinzioni che si formano in modo quasi istintivo nei consumatori anche avvertiti, e in molti tecnici, sono alquanto fuorvianti e tendono a spostare l’attenzione da quelli che sono i veri fattori da tener attentamente d’occhio se si vuol ottenere uno spumante che, nella sua categoria s’intende, raggiunga un ottimo livello d’apprezzamento.
Queste considerazioni erano sorte con evidenza scorrendo un opuscolo che illustrava i prodotti della zona classica di questi vini: la Champagne. Al cosiddetto metodo champenois di rifermentazione in bottiglia, oggetto di culto e indagini infinite, per carpire chissà quali segreti e misteri accuratamente velati, erano dedicate poche righe. Gli argomenti su cui si insisteva e che venivano ampiamente illustrati erano tutt’altri e si riferivano alle caratteristiche del suolo, del clima, dei vitigni, al savoir faire dei vignaioli e dei cantinieri. E’ ovvio che questa impostazione non era esente da una certa percentuale di intelligente capacità promozionale: le tecniche di spumantizzazione sono dislocabili ovunque, dall’Australia al Cile, ma la Champagne resta dov’é e nessuno può portarsela via. Pur ciò considerato, vi è nell’atteggiamento appena sottolineato una grande parte di verità: una materia prima adatta, particolarità di ottenimento e di trattamento del mosto, condotta della fermentazione e attente cure al vino base sono i fondamenti della qualità di uno spumante. Con questo non si vuol sottovalutare le difficoltà di una buona tecnologia di rifermentazione, che solo l’esperienza e la capacità di un tecnico sperimentato può condurre a buon fine. Ma questa tecnica si sovrappone solo a una qualità originale i cui pregi o le cui manchevolezze non possono più essere variate se non in modo poco incisivo dalla rifermentazione, e tanto meno quanto più lo spumante è destinato ad un affinamento prolungato.
Fra i fattori determinanti della qualità finale dello spumante, molti tecnici hanno indicato soprattutto il clima, il terreno e il vitigno. I primi due, benché di certo fondamentali, sono fuori del controllo del vinificatore e solo l’esperienza può indicare, o ha indicato, col tempo la loro adattabilità allo scopo di ottenere delle uve della composizione desiderata. La scelta del vitigno è invece compito dell’uomo e le esperienze maturate in ormai numerose zone possono dare indicazioni molto concrete. In generale sono da preferirsi cultivar neutre o quasi, perché un aroma troppo accentuato tende ad appesantire dal punto di vista olfattivo il prodotto finale. La struttura acidica del mosto è, come ben risaputo, fondamentale per una buona riuscita. Un elevato tenore in tartarico è ritenuto preferibile e poiché la sua sintesi è sotto controllo genetico, la scelta del vitigno riveste grande importanza. Anche il portainnesto non è però da trascurare, dal momento che l’assorbimento più o meno elevato di potassio nel corso della maturazione, fondamentale per mantenere un adeguato pH, non va trascurato.
Secondo l’opinione dei tecnici delle regioni dove si producono spumanti di pregio, il trattamento dell’uva nel corso della raccolta e della pressatura ha un’importanza capitale per le qualità del prodotto finito, ed in particolare per:
Nelle nostre regioni è consuetudine raccogliere l’uva con qualche anticipo, per avere un’acidità sufficiente, ma è da tener presente che il tenore zuccherino deve consentire di conseguire naturalmente una gradazione alcolica di circa 10-10,5; in caso contrario si avrà un prodotto scarso di corpo ed inadatto ad esprimere compiutamente le potenzialità di finezza del prodotto. E’ ovvio che solo la raccolta manuale ed il trasporto in recipienti di piccola capacità può far pervenire alla cantina un vendemmiato in perfette condizioni.
Per quanto riguarda l’ammostamento, si rifletta che, secondo autorevoli tecnici, con questa operazione ci si giuoca un buon 50% della qualità finale. Pressioni limitate e con aumenti molto graduali sono assolutamente indispensabili: la pressatura delle uve intere, tipica della Champagne ed anche nelle regioni dove si produce il “Cava”, è una premessa, se non indispensabile, certo molto favorevole per conseguire l’ottenimento di un mosto con scarsa fecciosità e pochi polifenoli (non troppo pochi: l’esperienza ha insegnato che in caso contrario il corpo del vino ne risente). Il mosto va illimpidito per aumentare la finezza, ma senza attuare un impiego esagerato di coadiuvanti, che spogliano sempre il prodotto. In particolare molto controverso è l’impiego della bentonite, che, adsorbendo le proteine, sembra incidere negativamente sulla formazione di una schiuma abbondante e persistente. Particolare cautela è consigliabile nel dosare la solforosa: si tratta di prodotti che saranno soggetti a rifermentazione e quindi va facilitata al meglio l’opera dei lieviti che condurranno questa seconda difficile operazione. Uno sfecciamento a freddo o l’impiego di rapidi sistemi dinamici è quindi consigliabile. Nel caso si impieghino uve rosse, e salvo il caso della produzione di spumanti rosé, è quasi sempre indispensabile l’uso del carbone decolorante, ma dosi massicce sono molto negative per le qualità sensoriali del vino risultante.
Nella spumantistica la preparazione del vino base non si discosta fondamentalmente dalla tecnologia di un vino bianco normale, ma vanno rigorosamente rispettate quelle norme ben conosciute, ma non sempre ben attuate suggerite dall’esperienza in proposito. In particolare un’attenta gestione della temperatura in modo da ottenere una fermentazione sufficientemente lenta ma completa: la relativamente bassa gradazione alcolica potenziale non dovrebbe porre troppi problemi, ma purtroppo le sorprese in questo campo talvolta non mancano. Un rigoroso controllo dell’andamento fermentativo consentirà di intervenire prontamente in caso di difficoltà. Inutile aggiungere che la scelta di un lievito selezionato buon fermentatore e che non produca assolutamente composti con odori sgradevoli, ma anche non troppo accentuati, è indispensabile, così come una rapida separazione delle fecce appena terminata la fermentazione. Al di là di evitare l’insorgere di odori di ridotto, l’aumento dei colloidi ceduti dal lievito in questa prima fase potrebbe porre poi problemi di illimpidimento o di filtrazione. Per quanto riguarda lo svolgimento della fermentazione malolattica, non si possono dare indicazioni valevoli in ogni caso. Nei nostri climi, dove le acidità non sono quasi mai eccessive, sembra consigliabile evitarla, anche perché un buon tenore in malico rende più longevo lo spumante e questo fatto può essere importante per i prodotti destinato ad un lungo affinamento.
Per quanto attiene alle cure da prestare al vino grezzo, basti dire che il prodotto che sarà inviato alla rifermentazione deve essere perfettamente stabilizzato sia dal punto di vista biologico, sia da quello fisico-chimico. I motivi sono evidenti: la rifermentazione va condotta dai lieviti scelti, con caratteristiche rigorosamente valutate dall’esperienza; quindi non devono essere presenti organismi inquinanti, che possono interferire in modo negativo col processo, sia colla produzione di composti indesiderati, sia entrando in competizione col lievito aggiunto. La situazione di quest’ultimo che deve operare in condizioni già molto difficili è bene che non abbia interferenze di alcun genere. Inoltre una perfetta stabilizzazione biologica consentirà di conservare il prodotto con minime dosi di solforosa, meglio se a bassa temperatura. Per quanto concerne la stabilizzazione chimico fisica, è evidente che l’aumento della gradazione alcolica è un fattore di rischio potenziale per eventuali precipitazioni, soprattutto tartariche. Anche se gli opportuni trattamenti nel caso della rifermentazione in autoclave o un adeguato periodo di affinamento nel caso degli spumanti rifermentati in bottiglia sono di solito premesse sufficienti ad evitare problemi nel vino confezionato, le precauzioni in merito non sono mai troppe. Questo problema va considerato con particolare attenzione quando, per mantenere una certa uniformità e continuità nella tipologia dello spumante, si proceda a tagli con vini diversi e, talvolta di annate differenti: il risultato della miscela di due vini stabili, non sempre lo è, per la modificazione di numerosi parametri compositivi.
I pareri contrastanti dei tecnici spumantisti sui meriti e sulle manchevolezze dei due procedimenti suaccennati hanno punteggiato per decenni la storia di questa tipologia di vini. Ci sembra che attualmente siano emerse riflessioni più razionali e ponderate. E’ evidente che non ci si può porre simile alternativa se prima, come sempre si dovrebbe fare, non ci si chiede a quale segmento di mercato è destinato il prodotto. La rifermentazione in bottiglia, pur con tutte le innovazioni tecnologiche affermatesi negli ultimi tempi e che hanno drasticamente ridotti i costi del rémuage, resta pur sempre un procedimento molto più costoso che non la rifermentazione in autoclave. A ciò si aggiungano i più lunghi immobilizzi del capitale, dal momento che un affinamento sulle fecce piuttosto (e talvolta molto) prolungato è d’obbligo per tali vini. E’ quindi ragionevole, stante l’elevato prezzo di vendita, destinare alla loro elaborazione le partite di vino base migliori, il cui costo può più facilmente venir assorbito dal prezzo finale. Un ulteriore motivo per questo atteggiamento sono le attese del destinatario finale: uno spumante caro presuppone un consumatore critico e che si aspetta elevata qualità: deluderlo, per risparmiare qualcosa sulla materia prima, sarebbe un ben ottuso comportamento, con conseguenze future devastanti. Lo spumante rifermentato in autoclave è di solito orientato verso una fascia di mercato meno esigente e quindi tendenzialmente più indulgente: una buona qualità è percepita quasi come una lieta sorpresa, più che come un obbligo. Inoltre è evidente che i più brevi periodi di affinamento porteranno il tecnico a privilegiare il mantenimento dei profumi primari dell’uva e quelli freschi della fermentazione, a scapito degli aromi terziari più complessi che richiedono lunghi tempi di affinamento per svilupparsi pienamente. Prodotti diversi destinati a mercati diversi, nei quali ogni prodotto può emergere per qualità intrinseche più o meno bene espresse; ma vini diversi, il cui confronto è spesso privo di senso.
Qualche accenno ad un’altra questione che ha provocato discussioni e polemiche qualche tempo addietro: quanto conta per la qualità finale di uno spumante rifermentato in bottiglia il prolungato contatto colla feccia di rifermentazione? Esperimenti cui partecipammo a suo tempo, condotti con molto rigore, sembravano dimostrare la pressoché nessuna incidenza di tale contatto dopo ben 36 mesi. Le qualità riscontrate erano da attribuirsi all’affinamento dell’ottimo vino iniziale nelle condizioni particolari in cui viene conservato uno spumante: alta pressione e basse temperature. Da allora si sono susseguite numerose esperienze condotte in diversi paesi e la conclusione che sembra derivarne è che tale incidenza, se c’é, è molto modesta e attribuibile a ben pochi ceppi di lieviti su tutti quelli sperimentati.
Sempre per quanto riguarda la rifermentazione in bottiglia, al fine di semplificare l’allontanamento del deposito, oltre all’impiego ormai generalizzato di apparecchiature computerizzate, sono state proposte altre soluzioni: lieviti inclusi in sferule di alginato o confinati in tappi particolari delimitati da membrane speciali o, in altri tipi, all’interno di fibre microporose. I risultati finali ottenuti sembrano corrispondenti al procedimento tradizionale, benché talvolta con una maggior lentezza di rifermentazione. L’adozione di questi nuovi procedimenti sembra più legata a fattori organizzativi e di costi, da valutare volta per volta. Ma fanno ancora riflettere sulla scarsa importanza del contatto lieviti-vino, scarsa o nulla in tali varianti.
Mario Castino